giovedì 8 febbraio 2024

ROMA, REPUBBLICA:VENITE! (I parte)



Queste le tre parole vergate da Goffredo Mameli (avete presente l’inno “Fratelli d’Italia?) in un telegramma inviato all’indirizzo “Felice Casati, Firenze”. Parole che esprimevano in maniera straordinaria la sintesi tra passione politica, speranza e visione di prospettiva che si stava vivendo da settimane nello Stato Pontificio. Il vero destinatario di quel telegramma era un uomo ricercato dalle polizie segrete dei maggiori stati europei. Un uomo che difficilmente rimaneva indifferente al proprio interlocutore: veniva amato oppure odiato, ma di certo non ignorato. Quest’uomo si chiamava Giuseppe Mazzini ed insieme a lui, tra il novembre del 1848 e il giugno del 1849, altre fulgide figure del nostro risorgimento vissero un momento di straordinaria tensione politica, sofferenza umana ed eroismo militare.  

Oggi vi racconteremo la storia della Repubblica Romana un evento del nostro Risorgimento non altrettanto famoso delle tre guerre d’indipendenza o dell’impresa dei Mille, ma carico di significati politici che avrebbe potuto sviluppare un percorso di unità nazionale diverso rispetto alla traiettoria monarchica che tutti conosciamo. Un esempio su tutti è dato dall’ avvenuta promulgazione di una costituzione con principi simili a quelli della nostra attuale Costituzione Repubblicana, promulgata cento anni dopo. Peccato che quella del 1849 rimase in vigore solo poche ore.

 

 Ma come era iniziato il tutto?

 

La fuga

 

Alle 17 e 30 del 24 novembre 1848 Giovanni Mastai Ferretti, salito al soglio pontificio due anni prima assumendo il nome di Pio IX, smise le vesti bianche, si tolse lo zuccotto e dopo aver indossato abiti da semplice prete, uscì da una porta secondaria del Quirinale per lasciare la città di Roma.  Nella stanza ove era il pontefice rimaneva il Duca d’Harcourt, ambasciatore di Francia, che ad alta voce fingeva di parlare con Sua Santità coprendone così la fuga.

 

Dov’è finito il Papa?

Questa la domanda che si fecero i romani tutti, dai popolani, ai principi, passando per i notabili e il clero. Infatti, anche se la notizia della sua fuga si sparse velocemente, non altrettanto successe in merito alla sua destinazione.

In realtà il vero quesito era il perché fosse fuggito senza lasciare altro che generiche istruzioni ai ministri dello Stato, salvo poi sconfessarli solo tre giorni dopo dichiarando di “nessun vigore e di nessuna responsabilità” il gabinetto romano e nominando una commissione per lo svolgimento delle attività di governo.  Contestualmente a tale atto emise anche un documento in cui si richiedeva, formalmente, un aiuto alle principali potenze europee per ristabilire l’ordine dall’anarchia.

Il 1848 non fu un anno facile nei principali stati europei. Insurrezioni e rivolte avevano portato a deposizioni di sovrani legittimi (Francia), rilascio di costituzioni poi revocate (Regno delle due Sicilie) e veri e propri conflitti per l’indipendenza (Lombardia).  

Per quanto riguarda la situazione di Roma non vi furono insurrezioni particolarmente strutturate od organizzate, ma la situazione parve precipitare il 15 di novembre quando il capo del Governo da poco nominato dal Papa, Pellegrino Rossi, venne ucciso con un colpo di coltello alla gola in un tafferuglio causato da una banda di giovani. Probabilmente si trattò di un evento sporadico che, tra l’altro non si configurò come l’avnguardia di un movimento rivoluzionario, ma tanto bastò al pontefice (anche malconsigliato o manipolato) per lasciare la città e richiedere l’intervento straniero.

 

A Parigi, intanto….

 

La Politica, si sa, è sempre costretta a seguire le contingenze, specie nel gestire le problematiche più complesse e in quei giorni nella capitale francese era in corso quella che oggi si chiama “campagna elettorale”.  

Una delle anomalie della vicenda storica, che ha per sfondo l’epopea della Repubblica Romana, fu che proprio da una Repubblica (quella francese) arriveranno le minacce (e successivamente anche le operazioni belliche) che metteranno in pericolo prima e soffocheranno nel sangue poi, l’esperienza romana.  

Nel febbraio del 1848 la monarchia francese di Re Luigi Filippo venne rovesciata a favore della creazione di una seconda Repubblica e gli eventi romani accaddero proprio nel bel mezzo dell’elezione del Presidente della Repubblica francese.  Quindi la “questione romana” fu giocoforza inserita nelle “piattaforme politiche” dei candidati, anche se poi si sarebbe trattato di restaurare un sovrano a discapito di una forma di governo “sorella”. Miracoli della politica.

 

 

I romani decidono per loro

 

A Roma, intanto, si cerca di risolvere lo stallo politico causato dalla fuga del pontefice aggravato anche dal disconoscimento del gabinetto romano.

Di idee rivoluzionarie ve ne sono, ma inizialmente prevale la linea della prudenza e si costituisce una “Provvisoria e Suprema Giunta di Stato” con il compito di governare in espressa attesa del ritorno del Pontefice o “qualora esso deputi, con atto vestito della piena legalità, persone a tener le sue veci”.  La sera stessa dell’11 dicembre, però, in una manifestazione spontanea di lavoratori incaricati di mantenere le strade di campagna, oltre alla richiesta di pane e lavoro iniziò ad apparire la parola “costituente”. Forse non tutti avevano ben chiaro il significato di tale vocabolo, ma sembrava che in pochi giorni la coscienza politica dei romani avesse fatto un balzo in avanti di decenni.

Non soltanto a Roma si discuteva di futuro.  Lo Stato Pontificio si sviluppava anche verso nord comprendendo territori dell’odierna Umbria, delle Marche e della Romagna e proprio in una città romagnola, Forlì, il 13 dicembre si votò un documento che parlava espressamente della necessità di procedere alla creazione di un’Assemblea costituente italiana.

Nel frattempo, nella capitale dello Stato erano confluiti corpi ed anime di patrioti. Non solo Mameli, ma anche De Boni, Cironi, Torricelli. Il governo provò a far approvare un decreto che consentisse l’espulsione di eventuali facinorosi, ma ormai le “energie” libertarie e democratiche erano state liberate.  Il 28 dicembre il Consiglio dei Deputati fu sciolto dalla Giunta perché ormai paralizzato dalle assenze. L’alto Consiglio nominato dal Papa aveva già cessato di esistere da tempo.

Rimaneva un’unica opzione e il pomeriggio del giorno successivo la Giunta di Stato ed i ministri decisero di convocare un’assemblea Nazionale per votare a suffragio universale i componenti di quella che sarà l’assemblea costituente. La data delle elezioni venne fissata al 21 gennaio 1849, quella della prima seduta dell’organo eletto al 5 febbraio.

Passarono pochi giorni che il Papa procedette alla massima sanzione possibile nei confronti di chi si sarebbe recato a votare: la scomunica.  Il Pontefice sperava così di mettere di fronte l fatto compiuto e grandi potenze, impedendogli di ignorare la questione romana, ma alla fine facilitò le operazioni di voto scoraggiando i cattolici alla partecipazione.

Ci mise poco l’assemblea ad approvare i 4 articoli del decreto che istituiva la Repubblica:

   Art.1 Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato romano.

   Art.2 Il Pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per la indipendenza nell’esercizio della sua potestà spirituale

    Art.3 La forma del governo dello Stato romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana.

   Art.4 La Repubblica Romana avrà col resto d’Italia le relazioni che esige la nazionalità comune.

La Repubblica era realtà.  La stessa sera del 9 febbraio Mameli scrisse a Mazzini per convocarlo ufficialmente a Roma.

 

 

Mazzini 

Pio IX è fuggito: la fuga è un’abdicazione: principe elettivo, egli non lascia dietro di sé dinastia. Voi siete dunque di fatto repubblica…Uomini logici ed energici ringrazierebbero il cielo è direbbero laconicamente: il principe ha disertato, ha tradito: noi facciamo appello dal principe al popolo. Roma è repubblica. La Costituente italiana… confermerà, muterà o amplierà questo fatto. E scelto dal popolo un governo, s’accoglierebbe in Roma, poiché i popoli d’Italia non son liberi tutti sinora, il nucleo iniziale della Costituente Italiana futura; e questo nucleo d’uomini noti, mandati dalla toscana, dalla Sicilia, da Venezia, dall’ emigration lombarda, dai circoli, dalle associazioni, presterebbe appoggio efficace al governo; e quel governo, con pochi atti nazionali davvero, diventerebbe governo morale di tutt’Italia in brev’ora.

Questa la lettera pubblicata il 15 dicembre del 1848 dal Corriere Livornese.  Un chiaro manifesto repubblicano che non solo esortava i romani a proseguire verso un percorso che sembrava scontato, ma auspicava anche che attorno a tale nucleo potessero coagularsi tutte le istanze libertarie dell’Italia. Un'unità italiana non sotto una monarchia (come poi in realtà successe), ma grazie ad un governo repubblicano. Ciò esattamente 100 anni prima della scelta refendaria del popolo italiano. La lettera fu scritta dall’esilio ginevrino di Giuseppe Mazzini, ma non passò molto tempo che sentì il bisogno di ritornare in Italia per seguire più da vicino le vicende dello Stato Pontificio.

L’8 febbraio sbarcò a Livorno, che nel frattempo si era liberata del Granduca Leopoldo.  Nella città toscana improvvisò comizi e si profuse in interventi, sempre con la consueta lucidità politica. 

Il giorno successivo viene avvisato da Mameli tramite il famoso telegramma in merito alla costituzione della Repubblica a Roma.  Meno di un mese dopo, il 9 marzo Mazzini viene accolto a Roma da una folla festante.  Ormai non si muove più come un fuggiasco, ma un vero leader osannato dalla folla.  

Diventa subito un punto di riferimento del nuovo soggetto politico e la sera del 27 marzo l’Assemblea Costituente si riunisce in seduta segreta, delibera lo scioglimento del comitato esecutivo e l’istituzione di un triumvirato con poteri illimitati.  Come triumviri furono eletti Aurelio Saffi, Carlo Armellini e Giuseppe Mazzini.

 

 

Garibaldi

 

Quando Carlo Alberto fu sconfitto a Custoza dal Maresciallo Radetzky, nel corso della prima fase della prima guerra d’indipedenza, Garibaldi continuò a combattere con la tecnica della guerriglia per settimane, senza che le forze austriache potessero agganciarlo e distruggerlo. Insieme a pochi fedelissimi riuscì a riparare in Svizzera e tra questi fedelissimi c’era proprio quel Giuseppe Mazzini che lo aveva convinto a lasciare le imprese in Sud America ed unirsi alla causa libertaria. 

Rimase poco in Svizzera. Prima tentò di mettersi al servizio del governo toscano di Montanelli e Guerrazzi (sempre dopo la fuga del sovrano), quindi vagò per gli Appennini con un pugno di uomini alla ricerca di vettovagliamento ed equipaggiamento. Dopo settimane di spostamenti il 27 aprile del 1849 Garibaldi fece accesso a Roma alla testa della sua legione. Era stato espressamente chiamato per far fronte alla minaccia dell’invasione francese che da qualche settimana si stava profilando e nominato generale di brigata. 

Gli sviluppi internazionali in quelle settimane furono convulsi e legati non solo agli umori francesi, ma anche all’esito disastroso della prima guerra d’Indipendenza a causa della sconfitta subita a Novara, ad appena quattro giorni dalla ripresa delle operazioni belliche.  L’uscita di scena del Piemonte espose la Repubblica alla minaccia austriaca (una delle potenze interpellate da Pio IX per il ristabilimento dell’ordine). Proprio con la scusa di proteggere Roma dall’invasione imperiale la Francia inviò un corpo di spedizione di quindicimila uomini. Avrebbero dovuto occupare la città ufficialmente per preservarla, ma in realtà per ristabilire il potere temporale.


Le Operazioni Militari 

 

Atto primo: i Francesi  

 

Gia dai primissimi momenti della sua permanenza a Roma, Giuseppe Mazzini aveva capito perfettamente che l’utilizzo della forza sarebbe stato indispensabile per difendere la neonata Repubblica, ed era sempre più impellente la creazione di un esercito che facesse leva sulla coscienza dei cittadini e che si lavorasse come se si avesse già il nemico alle porte. 

Per questo motivo era stata richiesta la presenza di un personaggio come Garibaldi che, al pari di Mazzini, suscitava estrema ostilità ad alcuni (era considerato alla stregua di un capobanda di briganti), o estrema ammirazione ad altri. Per chi aveva combattuto insieme a lui (come Mazzini) il non ancora famosissimo condottiero godeva fama di vero e proprio genio carismatico, capace di accendere l’ardore bellico anche al più tiepido dei soldati.

Il 30 aprile la città non si fece trovare impreparata. Un’apposita commissione per le barricate aveva provveduto a far scavare trincee, sistemare sacchi di sabbia, utilizzare barricate di cemento. Anche i cronisti del tempo si stupirono dell’operosità di una cittadinanza, quella romana, abituata al fatalismo dopo secoli di domino papale. 

Le truppe francesi provenivano da Civitavecchia ed il percorso più breve ed immediato per entrare in città era la via Aurelia che portava direttamente a Porta San Pancrazio, il varco posto a difesa delle mura gianicolensi.  Entrando da lì le truppe nemiche avrebbero conquistato una posizione ideale per poter dominare la città, visto che il gianicolo è l’altura che sovrasta trastevere e che avrebbe permesso di battere la città con l’artiglieria. Il generale Oudinot, che comandava le forze francesi, decise però di investire la città più a nord del gianicolo, e di preciso tra Porta Cavalleggeri e Porta Angelica, proprio ei pressi delle mura vaticane e della basilica di San Pietro.  Commise un grave errore perché Garibaldi (che occupava le posizioni di Porta San Pancrazio e il casino dei quattro venti dentro Villa Pamphili) ordinò al battaglione universitario di scendere verso le Porta Cavalleggeri e attaccare i francesi sul fianco.  Le forze garibaldine si scontrarono con il 20° fanteria di linea[1]e furono costretti a rinculare.  I soldati di Oudinot, allora, risalirono verso villa Pamphili per occupare la posizione strategica del casino dei quattro venti, ma Garibaldi in persona guidò un furioso contrattacco che ricacciò il 20° fanteria verso la via Aurelia e, visto che anche le forze in difesa di Porta Cavalleggeri contrattaccarono, pose tutto il corpo di spedizione francese nella condizione di dover ripiegare per evitare di essere circondato e annientato dopo un paio di ore di combattimento.

Considerando che al tempo l’esercito francese era nuovamente uno degli eserciti più preparati e potenti d’Europa, la vittoria ottenuta tra le pendici del gianicolo sarebbe stato un vanto per qualunque generale, ma non per Garibaldi che era si soddisfatto di aver mantenuto la promessa di aver battuto i francesi, ma non era sazio di guerra.  Secondo lui i francesi avrebbero dovuto esser inseguiti fino a Civitavecchia ed annientati.  Il Peppino nazionale si mise al loro inseguimento, ma fu fermato dal sopraggiungere dell’oscurità. La mattina successiva chiese rinforzi al Ministro della Guerra Avezzana, ma il suo impeto fu fermato dallo stesso Triumvirato, che non voleva umiliare i francesi. In fin dei conti tra tutti i loro nemici erano proprio i cittadini francesi ad essere i più favorevoli alla neonata Repubblica e annientare il loro corpo di spedizione avrebbe significato allontarli dalla loro causa.  Mazzini sperava che la sconfitta del 30 aprile avrebbe potuto essere determinante nel dibattito politico francese. Garibaldi (come farà altre volte negli anni successivi) obbedì suo malgrado.

 

Atto secondo il Regno delle due Sicilie e l’Austria

 

Non erano solo i francesi (o meglio il loro governo) a voler risolvere la questione romana “manu militari”, ma anche Austria e Regno delle due Sicilie si erano prefissati l’obiettivo di abbattere la nel Repubblica.

La vera fortuna dei patrioti repubblicani era che le forze avversarie si mossero, non solo senza un coordinamento che avrebbe sicuramente strangolato le forze romane, ma anche in piena competizione tra loro e ciò non fece altro che aumentare sensibilmente le chanches di vittoria di Garibaldi e soci, nonostante le loro forze fossero male armate, poco addestrate e anche meno numerose degli avversari. Fortunatamente non mancavano entusiasmo e determinazione e fu proprio grazie a queste due qualità che ,solo pochi giorni dopo l’insperata vittoria sui francesi, una colonna composta dalla “legione italiana” di Giuseppe Garibaldi, il battaglione universitario e un gruppo di bersaglieri Lombardi unitisi alla causa repubblicana (pur avendo il loro comandante simpatie monarchiche), partì da Roma con direzione (apparente) l’Abruzzo salvo poi piegare più verso sud-est. L’obiettivo  di Garibaldi era di passare per Palestrina con l’intento di attaccare il fianco delle forze napoletane accampate a Frascati ed Albano, quindi in territorio romano e anche piuttosto vicino.

Partirono da Roma il 4 maggio e il la mattina del 9 avvenne il primo scontro con le forze borboniche che si avvicinavano a Palestrina. Lo scontro durò un paio di ore e nonostante l’inferiorità numerica i soldati di Garibaldi ebbero la meglio attaccando con impeto le forze nemiche che si ritirarono in fretta lasciando anche alcuni prigionieri.

Lo scontro con le forze nemiche aveva ancora una volta confermato l’estrema perizia del condottiero nizzardo e anche se le forze romane somigliavano più ad un accozzaglia di avventurieri che ad un esercito, riuscirono a tamponare anche la minaccia proveniente dal sud Italia. Unica eccezione all’estemporaneità e all’informalità delle forze repubblicane, furono i bersaglieri di Luciano Manara. Questi era un capitano di 24 anni, di origini aristocratiche, che aveva combattuto sui campi di battaglia della guerra d’indipendenza del’anno precedente.  Essendo lombardi, in realtà, erano sudditi austriaci, quindi una volta dovuta abbandonare la causa dell’indipendenza italiana dovettero necessariamente fuggire dalla Lombardia. Trovarono  modo di mettere a frutto le loro competenze unendosi alle forze romane. Negli scontri del 30 aprile furono tenuti in riserva sulla sponda sinistra della città, mentre in quest’occasione iniziarono a svolgere un ruolo di maggior rilievo per le sorti della Repubblica. Li incontreremo ancora nel corso del racconto.

Nel frattempo la Francia stava tentando di congelare lo scontro. Compresa la seria determinazione dei romani di difendere in armi la propria città ( e spaventati dalla eco negativa che avrebbe avuto presso l’opinionpubblica francese l’uccisione di cittadini, operai, padri e figli anche se di una diversa nazione), riuscì a negoziare una tregua grazie all’arrivo a Roma di Ferdinand de Lesseps, un plenipotenziario (almeno all’inizio) dell Ministro degli Esteri Francese. In quel momento De Lesseps non era un diplomatico di alto rango, ma negli anni successivi avrà il merito di organizzare la gigantesca impresa della costruzione del Canala di Suez. 

La tregua negoziata dal De Lesseps (contro le volontà del generale Oudinot, comandante del corpo di spedizione francese), permise ai romani di distogliere delle forze militari dalla protezione della città. Usciti da porta San Giovanni il 16 maggio al comando del Generale Rosella, appena nominato capo dell’esercito, 11000 soldati puntarono verso le truppe borboniche tornate ad accamparsi sui colli Albani dopo lo scontro con le forze garibaldine.  L’intenzione delle forze borboniche sembrava essere quella di ripiegare, visto che avevano spedito bagagli ed artiglieria pesante verso Napoli. Nonstante le indicazioni del Generale Rosella fossero quelle di attenderlo, Garibaldi pensò potesse trattarsi di una ghiotta occasione per annientare le forze nemiche quindi, visto che era in loco, lanciò le sue forze in contro la retroguardia avversaria impegnando i borbonici in tutta una serie di disordinati parapiglia. Durante uno di questi scontri, lo stesso Garibaldi, per poco non venne catturato. Come spesso succederà anche negli anni successivi, l’imprevedibilià di Garibaldi creò sorpresa sia nelle proprie forze che in quelle nemiche con il risultato che il ripiegamento borbonico si trasformò in una vera e propria fuga verso il Regno delle Due Sicilie.  Il cane da guardia del Papa era stato battuto.



Continua…..



[1] Ibidem pag 318




martedì 5 settembre 2023

RUGGIERO DA FLOR: UNA STORIA DA CINEMA

 di Fabio Bertinetti

Figlio di un nobile della Turingia, Ruggiero da Flor, nasce intorno al 1268 (la data non è certa) nella città di Brindisi.  Il Padre non è italiano e il suo cognome in realtà è Vom Blum.  Come spesso succedeva nel medioevo i cognomi stranieri (e particolarmente ostici nella pronuncia) venivano italianizzati, quindi la trasformazione in Da Flor (o Dal Fiore) fu un percorso quasi naturale. Probabilmente non solo per esigenze di pronuncia avvenne l’italianizzazione del cognome, ma anche per la necessità di liberarsi di un eredità scomoda: la discendenza germanica.  Oltre ad essere un nobile di origine tedesca, il padre di Ruggiero era anche il falconiere di Federico II di Svevia e il suo legame con la dinastia Hohenstaufen proseguì anche dopo la morte dell’imperatore, infatti rimase al servizio del nipote di Federico, Corradino di Svevia, e trovò la morte nel 1268 nella famosissima battaglia di Tagliacozzo. Da quel momento l’egemonia sul meridione d’Italia passò alla dinastia francese degli Angioini che si insediarono sui possedimenti svevi.

Per Ruggero e la madre (una nobildonna brindisina) non fu un bel momento, visto che i possedimenti di famiglia vennero confiscati dai nuovi padroni, e il ragazzo si trovò a vivere in condizione di miseria.  Il porto diventa la sua nuova casa e sembra che il giovane Ruggiero non si fece affatto scoraggiare dagli eventi che lo condizionarono. Come ci racconta Claudio Rendina:”Ruggiero passa la sua povera fanciullezza bighellonando tra i vicoli del porto ovvero attaccando discorso con i marinai delle navi che fanno scalo; salta sulle impalcature, rovista nelle stive, fiuta il piacere di viaggiare. Segue quei marinai per bettole e bordelli, dà una mano a scaricare, racimola qualche soldo, impara i termini marinari, si mostra spavaldo e ben prestante. Insomma tanto fa che riesce a convincere il comandante provenzale di una galera di Templari a prenderlo a bordo a soli dieci anni; la madre acconsente e addio Brindisi!”[1]

Sarà per la sua voglia di riscatto, sarà per una sua predisposizione a prescindere, il ragazzo si impegna con tanto entusiasmo da fare una “carriera” straordinaria: a 15 anni è il miglior mozzo della ciurma, a venti anni il Gran maestro gli impone il mantello dei Templari, nominandolo “frate servente” e pochi mesi dopo ottiene addirittura il comando di una nave tutta sua: il Falcone. Da una prospettiva di vita misera e piena di rimpianti il giovane Ruggiero si trova ad avere una posizione autorevole all’interno di una comunità rispettata e temuta.  Niente male!

A questo punto, però, il giovane Ruggiero mostra tutte le sue inclinazioni che non sempre sono virtuose. All’indiscusso coraggio e alla voglia di scoperta si uniscono anche ambizione e spregiudicatezza che lo porteranno ad essere il prototipo di quei capitani di ventura che caratterizzeranno il panorama europeo e, specialmente, italiano nei successivi duecento anni. Nel maggio del 1291 si trova a difendere San Giovanni d’Acri dall’assedio dei Mamelucchi. Siamo all’atto finale dell’epopea delle Crociate e la cittadina in Terra Santa è difesa anche dai Cavalieri Teutonici, Ospitalieri e, appunto,  Templari.  In più circa 14000 fanti 1300 sergenti appiedati.[2]

Le forze musulmane sono  preponderanti (circa 160.000 uomini) e la città dopo quasi due mesi di assedio e di attacchi alle possenti mura, cade.  Come spesso accadde nell’antichità, i vincitori si dedicarono al saccheggio e alle uccisioni (e questo successe indipendentemente dalla fede del vincitore, basti pensare ai saccheggi dei Cristianissimi spagnoli durante il sacco di Roma del 1527) e in questo trambusto il nostro intraprendentissimo Ruggiero si incaricò di mettere in salvo l’oro dei templari.  Evidentemente, però, non riconsegnò il tesoro a nessuno visto che in breve venne espulso dall’ordine e denunciato al pontefice.  A questo punto, anche se spogliato del mantello dei Templari, Ruggiero non si perse d’animo: si reca a Genova dove recluta uomini, acquista alcune galee (indovinate con quale denaro?) e si mette al servizio della famiglia Ticino Doria per scortare le sue navi nel pericoloso mediterraneo e per, a tempo perso, dedicarsi alla guerra di corsa.[3]

Anche se l’attività rende, il nostro protagonista si mette alla ricerca di altro. E’ un uomo, ormai, ed anche piuttosto ambizioso. Da molti anni è in corso la guerra del Vespro tra gli angioini e gli aragonesi. La posta in gioco è il possesso della Sicilia. Ruggiero si reca dapprima a Napoli per mettersi al servizio di Carlo D’Angiò lo zoppo, figlio di quello stesso Carlo I che ridusse in miseria la sua famiglia.  Il Da Flor, però, non serba rancore. E’ piuttosto pragmatico e pensa ai soldi che potrebbe guadagnare al suo servizio e magari cancellare la persecuzione pontificia (Bonifacio VIII è dalla parte degli angioini in questa contesa).  Putroppo i piani di Ruggiero si infrangono sul rifiuto di Carlo, ma lui non si dispera, non si strugge, non si arrende. La guerra ha due contendenti e se il primo rifiuta ci si può sempre offrire al secondo.

In breve viene aggregato alla flotta di Federico d’Aragona e si occuperà di creare lo scompiglio attorno alle coste siciliane esercitando una guerra di corsa. Nel 1297 diventa vice-ammiraglio, è ammesso al real-consiglio e viene nominato feudatario di due castelli a Malta. Non solo le nomine regie, ma anche e soprattutto la sua attività da corsaro gli procurano ingenti ricchezze e una flotta personale. Il suo equipaggio era composto da marinai e soldati catalani (che non lo accompagnarono solo nell’impresa siciliana, ma anche nelle successive,diventando la compagnia catalana noti anche come Almovari) che alla fine condivisero con il loro capitano una triste sorte. Non ora però, non durante la guerra del vespro dove riuscirono a coprirsi di gloria grazie anche ad azioni come quella che nel 1301 gli consentì di forzare il blocco navale contro Messina (complice una tempesta che scompaginò la flotta angioini) e rifornire la città, vanificando di fatto l’assedio.

L’anno successivo, purtroppo per lui e per i suoi uomini, la pace di Caltabellotta pose fine alla guerra e li lasciò, seppur temporaneamente, disoccupati.  

Probabilmente Ruggiero non aveva bisogno di accumulare ulteriori ricchezze, ma i suoi uomini si. Ormai il legame con lor era piuttosto forte. No  si trattava solamente di masnadieri arruolati al bisogno, ma di un prodromo di quelle che poi saranno le compagnie di ventura. Probabilmente anche il bisogno di avventura e l’ambizione già descritta (oltre al fatto di tenersi buoni gli uomini) consigliarono il Da Flor di cercare dei nuovi contratti.  Con il permesso di Federico d’Aragona invio due legati a Costantinopoli per “saggiare il terreno” e per valutare se ci fossero le condizioni per militare al soldo dell’imperatore bizantino Michele IX Paleologo. La risposta fu positiva e il nostro eroe lascierà per sempre i campi di battaglia italiani per trasferirsi ad oriente. Stipulò un vero e proprio contratto. Non siamo ancora alla tipizzazione della “condotta” , ma si trattò di un accordo piuttosto preciso, specie per quanto riguarda le condizioni economiche: “[…]si stabiliscono quattro once d’oro di soldo al mese agli uomini d’arme, due ai cavalleggeri, quattro ai capitani di ciurma, una ai nocchieri e pedoni, 20 tarì ai balestrieri:le paghe anticipate di quattro mesi: due mesate oltre il servito a chi poi volesse tornare in patria. A Malvasia fossero pronti i viveri e le prime paghe.[4]

Non solo compensi economici. A Ruggiero viene assicurata la nomina di Capitano  del mare e la mano della principessa  Maria, figlia del re Azan di Bulgaria.

Ancora una volta il nostro capitano riesce ad “alzare l’asticella”, a salire un ulteriore gradino sociale. Probabilmente avrà pensato di non avere alcun limite davanti a se.

Dal punto di vita militare l’avventura va a gonfie vele. Dal 1303 e per i due anni successivi  sconfigge i genovesi a Galata e i turchi a Cizico e Filadelfia. Il legame con i suoi uomini è sempre più forte, al punto che si offre di pagare i debiti che, inevitabilmente, avevano contratto a Costantinopoli.

Forte, deciso, spregiudicato,ambizioso, amato dai suoi uomini. Una storia del genere non poteva che finire con il ferro delle spade, specie in una corte intrigante come quella di Costantinopoli. Nell’aprile del 1305 la sua vita venne interrotta da una pugnalata alle spalle durante un banchetto nel palazzo imperiale di Adrianopoli. Non solo lui, ma anche molti dei suoi uomini caddero in quello che fu un agguato teso ad eliminare anche tutta la sua compagnia. Alcuni riuscirono a fuggiree decisero di vendicarsi mettendo a ferro e a fuoco Tracia e Macedonia.


[1] Claudio Rendina “I capitani di ventura” Universale storica Newton 2004 pag 29

[2] Georges BordonoveXII. La cupola di Acri, in Le Crociate e il regno di Gerusalemme, Milano, Bompiani, 2001, p. 419

[3] Claudio Rendina “I capitani di ventura” Universale storica Newton 2004 pag 30

[4] Ibidem pag 31

venerdì 14 luglio 2023

Il SOGNO AMERICANO PRIMA DELL' AMERICA

 di Fabio Bertinetti

   

Con la locuzione "Sogno Americano" ci si riferisce alla speranza 
che attraverso il duro lavoro, il coraggio e la determinazione sia 
possibile migliorare il proprio tenore di vita e raggiungere la 
prosperita' economica che si desidera.

   Il sogno di migliorarsi ed emanciparsi grazie al lavoro e all'impegno e' connaturato con  l'essere umano.   La sua stretta relazione con le opportunita' che gli Stati Uniti d'America hanno sempre offerto e' un concetto relativamente recente e strettamente collegato sia con l'epopea della colonizzazione americana, che con i successivi sviluppi della rivoluzione industriale.

 

  Anche prima della scoperta dell'America (o comunque nello stesso periodo) c'era un impero che, in una diversa contestualizzazione, poteva rappresentare una specie di "Sogno americano", almeno per quanto riguarda la possibilita' che individui poveri e di umili estrazioni potessero raggiungere ruoli di amministrazione o addirittura di governo.

 

L'Impero di cui parleremo e' quello ottomano, mentre lo strumento che consentiva una simile "scalata" delle gerarchie sociali  era il Devshirme, la raccolta.

 

Venne istituito verso la fine del 1300 da quel sultano Murad I che mori' in battaglia a Kosovopolje ed era una forma di tassazione applicata ai territori cristiani conquistati dall'impero. Periodicamente, a rotazione, degli incaricati ottomani si recavano presso le popolazioni cristiane dei balcani (Serbi, Albanesi, Croati, greci), delle pianure ungheresi e delle localita' bulgare, per reclutare ragazzi molto giovani e promettenti.  Li toglievano per sempre dalla tutela della loro famiglia e li assegnavano a famiglie di contadini turchi. Vi rimanevano il tempo necessario per comprendere lingua, usi e costumi locali (mettendo anche alla prova le proprie qualita' fisiche). Successivamente venivano inviati a Costantinopoli ove ricevevano un'istruzione adeguata al ruolo che avrebbero svolto.

Alcuni di loro diventavano Giannizzeri, quindi soldati temuti e rispettati. Altri potevano fare carriera al palazzo del Topkapi (una sorta di corte per intenderci) fino ad arrivare a raggiungere il grado di "Gran Visir" che era il piu' importante e il piu' influente dei ministri (Pascia') del Sultano.

Il devshirme non prevedeva la conversione forzata all'Islam visto che la stessa religione musulmana la vieta espressamente.  Il vivere, pero', lontano dalle proprie famiglie facilitava la scelta di questi ragazzi che, una volta convertiti spontaneamente, avrebbero potuto godere di privilegi altrimenti negati.

 

Con il Devshirme, in pratica, l'impero ottomano rigenerava continuamente la propria classe dirigente, evitava la nascita di piccole o grandi nobilita' che avrebbero potuto contendere il potere al Sultano e sfruttava la tendenza al riscatto sociale che solitamente hanno le persone di origine piu' umile.

 

Tra il XVI e il XVII secolo il Devshirme veniva criticato aspramente dalle classi dirigenti europee (strettamente legate al diritto di sangue), per le quali sarebbe stata inammissibile l'ascesa sociale di un individuo con umile estrazione, con una diversa religione di origine e di un etnia completamente diversa.

In alcuni casi veniva sottolineato l'aspetto piu' "meritocratico" dell'istituto: ad esempio l'ambasciatore veneziano Marino di Cavalli, nel 1560,  auspicava che anche nella Repubblica potesse essere premiato piu' il merito degli umili che non il rango dei Patrizi.

 

In assoluto l'istituto del devshirme era utile a preveniere il sorgere di poteri locali con tradizione ereditaria, sia per la sua caratteristica di affidare le attivita' amministrative, di governo e di difesa a persone di origine straniera, sia per il fatto che un Sultano poteva sempre decidere liberamente di far strangolare chiunque si ribelllasse.   Innegabilmente era uno strumento che svelava molti aspetti crudeli, sia nel reclutamento forzato che nella condizione in cui i giovani "raccolti" venivano istruiti e formati.

 

Non solo il Devshirme, comunque, permetteva agli umili di emergere, ma anche la possibilita' per chiunque di convertirsi all'Islam (anche in eta' adulta) consentiva agli emarginati, ai prigionieri di guerra o ai semplici fuggiaschi di "rifarsi una vita" lontano dal loro paese di origine e magari facendo carriera come mercante, marinaio e corsaro.


mercoledì 29 marzo 2023

I DUE AMMIRAGLI DI CAPO MATAPAN

I DUE AMMIRAGLI DI CAPO MATAPAN  


 di Fabio Bertinetti

 


La genesi dell’operazione

 

La notte tra il 28 e il 29 marzo del 1941, al largo del Peloponneso, si svolse la più importante tra le battaglie navali nelle quali venne coinvolta la Regia Marina.

Passò alla storia come battaglia di Capo Matapan, ma più che una battaglia fu uno scontro fortuito ed improvviso proprio nel momento in cui le navi italiane pensavano di esser riuscite a guadagnare la via di casa.

Il resoconto della battaglia ce lo restituiscono i due protagonisti principali:L’Ammiraglio Angelo Iachino, comandante in capo della flotta italiana, e l’Ammiraglio Cunningham, comandante della Mediterranean fleet, la squadra navale inglese stanziata ad Alessandria d’Egitto. Tutto ha inizio con le insistenze tedesche per un’azione della flotta italiana, volta ad intercettare i convogli che dall’Egitto si dirigevano in Grecia, per rinforzare le truppe inglesi, ivi stanziate. La Grecia aveva subito un attacco italiano destinato a “spezzarle le reni”, ma che in realtà si era dimostrato un fallimento. Dopo che il Regio Esercito riuscì a stabilizzare il fronte ed a bloccare la controffensiva greca, era ormai evidente come solo un’invasione tedesca potesse contribuire ad avere finalmente ragione delle difese elleniche.

 I Tedeschi, quindi, nella persona dell’ammiraglio Weichold, chiesero alla Regia Marina di mettere sul piatto tutta la sua potenza (nominalmente era la quinta marina da guerra del mondo) e bloccare i rinforzi Inglesi che stavano affluendo proprio in ottica anti tedesca. Nelle informazioni che trasmise a Roma, via lettera, l’ammiraglio tedesco riferiva che secondo le loro valutazioni solo una nave da battaglia (corazzata) inglese era presente ad Alessandria  e precisamente la Valiant che solo pochi mesi più tardi sarebbe stata seriamente danneggiata in porto dagli incursori della X MAS.  L’informazione tedesca parve credibile allo stato maggiore italiano, in quanto il X CAT (comando aereo tedesco) nei giorni precedenti riferiva di aver attaccato e silurato due corazzate inglesi. 

In risposta alla sollecitazione tedesca Supermaria (Stato Maggiore della Regia Marina) elaborò un piano basato su tre squadre navali che si sarebbero posizionate sia a nord che a sud di Creta per attuare il blocco desiderato. All’azione avrebbe partecipato una delle due nuove superdreadnought italiane, la Vittorio Veneto, entrata in servizio da pochi mesi e caratterizzata da velocità protezione e potenza di fuoco superiori alle navi da battaglia inglesi presenti in mediterraneo (eccetto alle classe Nelson). Le altre navi erano 6 incrociatori pesanti (classe Zara e classe Trieste) armati con cannoni da 203 mm (anch’essi superiori in calibro agli Orion britannici) e due incrociatori leggeri con pezzi da 152   mm (Garibaldi e Duca degli Abruzzi). Completavano la lista 13 cacciatorpediniere in funzione di unità siluranti e antisommergibile. L’ordine di battaglia Inglese era più consistente di quanto supposto dai tedeschi e in particolare comprendeva:  1 portaerei, 3 Navi da Battaglia, 4 incrociatori leggeri e 16 cacciatorpediniere. 

Un altro elemento su cui Iachino pensava di poter contare era rappresentato dalla promessa di ricevere adeguato supporto aereo da parte della Regia Aeronautica. Anche se la distanza dalle basi italiane era proibitiva (al punto da rendere impossibile l’utilizzo prolungato del X CAT operante dalla Sicilia), Supermarina aveva avuto assicurazioni che apparecchi da caccia con serbatoi supplementari sarebbero decollati dalle isole del Mar Egeo.  In questo modo si sarebbe potuta compensare quella che la stessa battaglia di Capo Matapan evidenziò come grave mancanza della Marina Italiana: la mancanza di portaerei. 

La sera del 26 marzo del 1941 l’Ammiraglio Iachino salpò da Napoli con direzione sud-est.  Solo poche ore prima un aereo da ricognizione tedesco aveva fotografato tre navi da battaglia Inglesi nelle acque di Marsa Matruth che rientravano verso Alessandria. La notizia venne comunicata a Supermarina, ma l’Ammiraglio Iachino sostenne di non averla mai ricevuta. Non un buon inizio, dunque.

La mattina del 27 marzo la Vittorio Veneto, scortata da 4 cacciatorpediniere, raggiunge lo stretto di Messina e si riunisce con la III Divisione incrociatori (Trento, Trieste e Bolzano e relativa squadriglia di cacciatorpediniere). A quel punto le navi avrebbero dovuto essere scortate da 10 aerei da caccia tedeschi, con il compito di tenere lontani eventuali ricognitori nemici e ritardare la scoperta.  A causa della foschia gli aerei germanici non riuscirono a trovare la formazione italiana, mentre miglior fortuna ebbe un idrovolante inglese che riuscì ad avvistare la formazione vanificando l’effetto sorpresa.

La sera dello stesso giorno l’Ammiraglio Cunningham mollò gli ormeggi a bordo della corazzata Valiant, unitamente alla Warspite, alla Barham, alla portaerei Formidable, più la solita scorta di cacciatorpediniere. Parecchie miglia più avanti incrociava la squadra del viceammiraglio Pridham-Wippel al comando degli incrociatori Ajax, Perth e Gloucester. In realtà Cunningham dichiarò di esser certo che le navi italiane non si sarebbero fatte vedere in zona al punto da scommettere, simbolicamente, dieci scellini con un ufficiale del suo Stato maggiore che non avrebbero visto il nemico. Naturalmente perse la scommessa. 

 

La battaglia di Gaudo

 

Siamo arrivati così al 28 marzo e la flotta italiana giunge nei pressi dell’isola di Gaudo appena a sud di Creta così disposta: La Vittorio Veneto e la III divisione in posizione più avanzata (verso Alessandria), mentre la I divisione (Zara Pola e Fiume) e l’ VIII divisione (Garibaldi e Duca degli Abruzzi) in posizione più arretrata.  Ognuna di queste formazioni aveva il proprio “corredo” degli onnipresenti cacciatorpediniere. Iachino lancia degli idrovolanti dalla Vittorio Veneto e dal Bolzano con l’obiettivo di ricercare i convogli da attaccare.  Non sapeva, l’Ammiraglio italiano, che Cunningham aveva provveduto a richiamare due convogli  nel momento in cui, la sera precedente, aveva avuto notizia che tre incrociatori italiani avevano preso il mare.  I due idrovolanti italiani non trovarono alcun convoglio. In compenso si imbatterono nella squadra incrociatori del viceammiraglio Pridham-Wippel che aveva ricevuto l’ordine di trovarsi all’alba del 28 marzo proprio nei dintorni  di Gaudo. Fu il primo degli incontri casuali che caratterizzarono lo svolgersi delle due diverse battaglie. L’avvistamento degli incrociatori inglesi avvenne alle 7.00, mentre solo trentanove minuti più tardi un aereo decollato dalla portaerei Formidable individuò le navi italiane e comunicò la loro posizione a Pridham-Wippel.  La Formidable faceva parte del grosso della forza da battaglia che in quel momento si trovava a circa 90 miglia dalle due squadre italiane.  Alle 8,12 i tre incrociatori italiani aprirono il fuoco da 24000 metri di distanza e iniziarono ad inquadrare l’incrociatore Gloucester pur senza colpirlo. Gli Inglesi risposero al fuoco, ma le salve risultarono troppo corte e la stessa reazione era poco convinta, anche perché le navi britanniche avevano invertito la rotta per puntare vero il loro gruppo da battaglia.  In pratica volevano sia sfuggire agli incrociatori italiani, sia ridurre le distanza tra gli stessi e le loro corazzate. In ogni caso ancora non si erano accorti della presenza della Vittorio Veneto.   Per circa 40 minuti l’azione di fuoco continuò senza però che nessuna nave inglese venisse colpita. A quel punto l’Ammiraglio Sansonetti, al comando della III divisione, ruppe il contatto e invertì la rotta in direzione nord ovest (300°). Le navi inglesi si ritirarono dopo l’emissione di cortine fumogene e nel  frattempo le navi di Cunningham si erano avviciniate a circa 65 miglia. Passarono pochi minuti e la tattica inglese sembrò più chiara. Il gruppo di incrociatori, in realtà, non stava abbandonando la battaglia ma solo tentando di farsi inseguire dalle navi italiani per farle finire “in bocca” ai grossi calibri di Cunnningham.  Una volta che Sansonetti e Iachino ebbero assunto rotta 300, gli inglesi invertirono nuovamente la rotta per mantenere il contatto con gli italiani. A quel punto il comandante della flotta Italiana decise di tentare una manovra di aggiramento del gruppo incrociatori nemici  con la Vittorio Veneto da levante e con la III divisione da ponente. Iachino contava sul fatto che gli inglesi non avessero ancora individuato la sagoma possente della sua corazzata, tentò così di prenderli di sorpresa e tagliargli la via della ritirata. La manovra non riuscì perfettamente e invece di aggirare gli incrociatori se li trovò di prora a dritta. “ Si sviluppò così un rapido e violento scontro a controbordo tra il solo V.Veneto e gli incrociatori nemici, i quali però poterono subito accostare verso sud, ritirandosi ad alta velocità e coprendosi con cortine di fumo. Il nostro tiro fu spesso centrato, come riferirono gli stessi inglesi, ma mancò il colpo fortunato che arrestasse una di quelle unità[1]. In pratica un nulla di fatto da parte italiana, nonostante la superiore potenza di fuoco della nave da battaglia. Considerando che si erano fatte ormai le 10.30, la distanza dalla forza principale si era ridotta e un gruppo di aerosiluranti tipo “Albacore” iniziò ad attaccare la Vittorio Veneto. I sei siluri lanciati vennero tutti evitati, ma l’accostata della corazzata italiana la portò ad allontanarsi dal gruppo di incrociatori nemici. Anche la seconda fase della battaglia era terminata e le navi italiane ripresero la rotta verso la madrepatria.  Durante l’azione un gruppo di caccia pesanti tedeschi tentò di ostacolare la manovra e fu l’unico tentativo di difesa della flotta italiana che le forze aeree dell’asse intrapresero in quelle due giornate di battaglia. L’attacco degli aerei inglesi era appena terminato quando Iachino ricevette da Supermarina la notizia della presenza della Formidable.  A parte il fatto che l’Ammiraglio italiano aveva avuto modo di accorgersene in autonomia, ma la cosa ancora più grave fu l’assenza dell’informazione relativa alle tre corazzate che accompagnavano la portaerei. Solo alle 14.25 Iachino ricevette la notizia che un aereo italiano proveniente dall’Egeo aveva avvistato (due ore prima!!) una nave da battaglia, una portaerei, 6 incrociatori e 5 cacciatorpediniere 75 miglia a levante della loro posizione. L’Ammiraglio non diede particolare credito alla segnalazione visto che lo stesso tratto di mare era stato esplorato poco prima da alcuni idrovolanti di bordo e questo la dice lunga sulla fiducia che Iachino poteva avere nel servizio di ricognizione della Regia Aeronautica, ma poi “Soltanto alla fine della guerra, si è potuto appurare che quell’avvistamento era invece esatto ed era stato fatto, non da un ricognitore, bensì da due Aerosiluranti dell’Egeo che si erano avvicinati alla Formidable e l’avevano attaccata col siluro. L’attacco era fallito; ma la notizia sarebbe stata molto utile per noi, se avessimo saputo che proveniva da aerei che non potevano aver sbagliato il riconoscimento della nave attaccata e che, essendo tornati subito alla base, non potevano nemmeno aver commesso grossi errori di stima. Purtroppo il ritardo con cui pervenne  quel telegramma di avvistamento e la sua provenienza erroneamente attribuita a un ricognitore lo resero  poco attendibile tanto al comando squadra quanto a Supermarina, che non gli dette credito e non lo ritrasmise nemmeno a noi, come faceva per ogni notizia di qualche interesse”[2].

Nel frattempo la Vittorio Veneto continuava a subire attacchi aerei fino a che in quello delle 15.19 un aerosilurante “Swordfish” (identico a quelli che avevano attaccato Taranto) riuscì a piazzare un siluro a poppa a sinistra, venendo poi abbattuto. La nave subì danni importanti: imbarcò circa 4000 t di acqua e perse definitivamente l’uso delle due eliche di sinistra.  Anche il timone rimase bloccato e sembrò quasi che la nave fosse stata paralizzata.  Dopo circa quaranta minuti si riuscì a riparare i danni e mettere in condizione la nave di riprendere la rotta alla velocità di 16 nodi. La preda era ferita e i cani da caccia iniziarono a fiutare il sangue.  Alle 15.50 Iachino venne sviato da un altro rapporto (questa volta tedesco) che faceva riferimento all’avvistamento di 165 miglia dalla loro posizione di una nave da battaglia 4 incrociatori e 12 cacciatorpediniere. Tale informazione coincideva con una comunicazione di Supermarina che riferiva rilevamenti radiogoniometrici utili ad individuare una nave nemica che trasmetteva ordini 170 miglia a sud della loro posizione.  Entrambe le informazioni sembravano quindi confermare si la presenza di una consistente squadra nemica, ma a notevole distanza e con velocità inferiore. Da questo momento in poi il timore di Iachino saranno esclusivamente gli attacchi aerei. Ordina alla I e alla III divisione di disporsi a dritta e a sinistra della nave ferita, predisponendo i cacciatorpediniere in fila in posizione esterna rispetto agli incrociatori. Si viene così a costituire una formazione compatta di 18 navi intorno alla Vittorio Veneto in modo da generare un micidiale fuoco antiaereo e una cortina fumogena che potesse nascondere le unità dalla vista del nemico, in più Iachino dispose di far accendere e sventagliare i proiettori dei cacciatorpediniere a desta e a sinistra con l’obiettivo di abbagliare i velivoli attaccanti. 

Alle 19.30 un gruppo di aerosiluranti attaccò la formazione e, nonostante le difese predisposte, riescì a colpire con un siluro l’incrociatore Pola.  Al rientro degli aerosiluranti questi dichiarano di aver colpito delle navi italiani e a quel punto gli incrociatori di Pridham Wippel partirono alla caccia delle navi colpite con l’intento di trovarle danneggiate e silurarle definitivamente. Fortunatamente non trovarono alcuna nave visto che la formazione italiana aveva accostato di 30° subito dopo l’attacco aereo e aveva aumentato l’andatura a 19 nodi.  Gli inglesi non trovarono neanche il Pola che avendo imbarcato grandi quantità di acqua aveva subito lo spegnimento delle caldaie e la perdita dell’energia elettrica. La nave era paralizzata in mezzo al  mediterraneo come un bastimento fantasma.


Capo Matapan

 

Il siluramento del Pola non era passato inosservato dall’ ammiraglia della squadra incrociatori, nonostante il buio. L’Ammiraglio Cattaneo, imbarcato sull’incrociatore Zara ricevette la comunicazione dalla Regia Nave Fiume e immediatamente contattò il Pola per chiedere le sue condizioni. Il messaggio venne intercettato da bordo della Vittorio Veneto ed in quel momento Iachino fu messo a conoscenza del siluramento del Pola e della sua immobilizzazione. In quel momento il comandante della flotta italiana prende una decisione che sarà cruciale per lo svolgersi della battaglia. Lasciamo raccontare da lui il ragionamento che lo condusse a tale decisione:

Proprio in quel momento mi fu portato un telegramma di Supermarina, giunto durante l’attacco aereo, che comunicava ce un’unità nemica, sede di comando complesso, era stata radiogoniometrata alle 17,45 in una posizione a circa 75 mg di poppa al Vittorio Veneto. Non poteva certo essere quel gruppo di grandi unità nemiche che, due ore prima, si trovava a 160 mg da noi; doveva perciò trattarsi del solito gruppo Orion, che ci stava seguendo fin dal mattino, e perciò non me ne preoccupai. Quando, poi alle 20.30, si intercettò il segnale nemico che ordinava alle sue navi di ridurre la velocità a 15 nodi, io logicamente lo interpretai come l’intenzione degli Orion di desistere dal seguirci per evitare una incerta e pericolosa mischia notturna.”

Seguendo il filo del suo ragionamento, Iachino, autorizzò l’ammiraglio Cattaneo ad invertire la rotta con i suoi due incrociatori pesanti (Zara e Fiume) e la scorta di 4 cacciatorpediniere (Carducci , Oriani, Gioberti e Alfieri), per soccorrere il Pola, magari rimorchiandolo o, comunque, per porre in salvo quante più persone dell’equipaggio.

Iachino ignorava che il grosso della flotta nemica composto dalle corazzate Malaya, Warspite e Barham stava giungendo rapidamente nei pressi dell’incrociatore immobilizzato.

Dal racconto di Cunningham: “Verso le 19.30 quando era quasi notte, i nostri aerei Swordfish si levarono per la terza volta all’attacco. Pridham Wippel era a sole 9 miglia dal nemico. I rapporti dei piloti indicavano qualche probabile colpo a segno, senza tuttavia poterlo confermare. Dovevo ormai prendere una decisione. Non era cosa facile. Ero convinto che sarebbe stato sciocco non fare tutto il possibile per annientare il Vittorio Veneto. Ma l’Ammiraglio italiano doveva conoscere perfettamente la nostra posizione e disponeva di cacciatorpediniere e di incrociatori in quantità A uno posto, nessun ammiraglio inglese avrebbe esitato a lanciare tutti i cacciatorpediniere e gli incrociatori dotati di lanciasiluri contro la muta che lo inseguiva. Alcuni ufficiali mi fecero notare che era imprudente inseguire ciecamente gli italiani, con il rischio di esporre le nostre unitaà pesanti e la portaerei, e la possibilita di trovarci, il mattino dopo , a portata dei bombardieri nemici. Ascoltai con molta deferenza i loro ragionamenti, ma siccome era giunta l’ora di cena dissi che prima avrei pranzato e he poi si sarebbe visto. Quando risalii in plancia, ero ottimista e ordinai alla forza d’attacco di C.T. di muovere alla ricerca del nemico e di impegnarlo.

Alle 22,25 le corazzate inglesi sono giunte nei pressi del Pola, nella speranza potesse trattarsi della Vittorio Veneto. Hanno tutti i pezzi puntati sul Pola quando improvvisamente scorgono le sagome dello Zara e del Fiume che tagliano la rotta delle loro corazzata. La Valiant aveva il radar (fatto sconosciuto agli italiani) e grazie al radar il gruppo si era avvicinato al Pola.  Neppure il radar però riuscì ad evitare l’incontro inaspettato con la squadra dell’ammiraglio Cattaneo.  Da una distanza di 3500 metri (praticamente a bruciapelo visti i calibri da 381 mm delle navi da battaglia), gli inglesi aprirono il fuoco mentre il C.T. Greyhoud accese il proiettore su uno degli incrociatori italiani:

Nel fascio di luce, vidi i nostri sei grossi proietti in aria , e li seguii. Cinque su sei colpirono l’incrociatore un poco al di sott del ponte di coperta, e detonarono scoppiando con dei bagliori fiammeggianti. Gli italiani erano stati presi alla spoìrovvista. I loro cannoni erano brandeggiati nel senso poppa-prora e non poterono tentare alcuna difesa. Di poppavia a noi, la Valiant aveva aperto il fuoco nello stesso tempo. Anch’essa aveva inquadrato il proprio bersaglio, e io L’osservavo mentre polverizzava il su avversario. Non avrei mai creduto che fosse possibile una tale celerità di tiro con cannoni così grossi. La Formidable aveva accostato sulla dritta, ma a popavia della Valiant , la Barham faceva fuoco con tutti i suoi pezzi”.

Mentre le navi da battaglia inglesi facevano fuoco sullo Zara e sul Fiume il gruppo di CT di scorta tentò un contrattacco disperato, caricando le navi inglesi lanciando alla disperata (e al buio) salve di siluri.  Le unità inglesi accostarono violentemente a dritta per evitarli, quindi concentrarono il fuoco anche sulle unità di scorta. In pochi minuti la marina italiana perse due incrociatori pesanti e due cacciatorpediniere, mentre nel corso della notte anche nave Pola, raggiunta dalle navi inglesi, venne silurata a affondata.

A fronte di 2400 marinai italiani morti, gli inglesi registrarono unicamente la perdita di un aerosilurante e i suoi tre uomini di equipaggio.

 

I due ammiragli.

 

Le cause della sconfitta di Matapan furono molteplici.  Innanzitutto un’impreparazione tecnologica e dottrinale della Regia Marina nel combattimento notturno.  Gli italiani, infatti, non avevano radar, non avevano munizionamento adeguato per combattere di notte, non avevano l’addestramento specifico ed inoltre era previsto che nelle ore notturne le artiglierie delle navi fossero disposte “per chiglia”, cioè in posizione di riposo e non pronte al fuoco.

Anche il livello di collaborazione (scarsa) tra Regia Aeronautica e Regia Marina fu tra le cause della sconfitta, per non parlare del fatto che gli inglesi avevano portaerei (rivelatisi determinanti nello specifico) e gli italiani no (Mussolini riteneva non fossero necessarie a causa della posizione strategica dell’Italia al centro del mediterraneo).

Un aspetto interessante da sottolineare, leggendo i racconti dei due ammiragli, è il loro diverso grado di sicurezza e di padronanza dell”arena di combattimento”, che a conti fatti risultò determinante, non tanto nello scontro di Gaudo (dove la squadra incrociatori e la Vittorio Veneto pur martellando con veemenza le navi inglesi non riuscirono mai a colpirle), quanto nello scontro notturno ove senza la scelta di mandare in soccorso l’intera I divisione incrociatori, le perdite sarebbero state indubbiamente inferiori (il solo Pola). La scelta invece maturò anche a causa della convinzione errata di Iachino che il grosso della forza inglese fosse parecchio distante e che non si sarebbe mai impegnata in uno scontro notturno (ragionamento questo contaminato dalle disposizioni della Regia Marina di cui sopra, che non erano affatto condivise dalla dottrina inglese che invece per lo scontro notturno era perfettamente preparata).

Dal racconto di Iachino permea una continua alea di incertezza sia sul supporto da parte della Regia Aeronautica, sia sulla composizione e sulla posizione delle forze nemiche. In pratica l’ammiraglio italiano chiede, supppone e agisce passivamente agli eventi che per lui sembrano incontrollabili.  L’Ammiraglio inglese, di contro, è sempre ben informato e consapevole della situazione tattica (per quanto lo si possa essere in guerra) e ciò non solo per la presenza del radar a  bordo di alcune unità inglesi, ma fin dal momento della partenza della flotta italiana. 

Carico di significato è anche il fatto che Cunningam nel momento di decidere se inseguire le navi italiane di notte (con il rischio di esporsi ad attacchi aerei la mattina successiva) non decide d’impeto: si consulta con i suoi ufficiali e successivamente si prende i tempo necessario per una decisione ponderata (dopo aver cenato!!). 

Sicuramente l’atteggiamento di un vincente.

La battaglia di Capo Matapan fu uno scontro sicuramente shoccante per la marina italiana e per lo stesso Duce.  L’idea di poter competere contro la prima marina del mondo si era rivelata illusoria e anche la convinzione che le portaerei non servissero venne presto rivista sia dallo Stato Maggiore della Marina che dallo stesso Duce.  Proprio il disastro di Matapan fu l’ultimo degli eventi che permisero l’impostazione sugli scale  di due portaerei da 23000 tonnellate circa, chiamate Aquila e Sparviero, che avrebbero dovuto compensare tale mancanza.  Purtroppo la costruzione delle unità non venne completata in tempo e l’armistizio dell’ settembre colse le due unità in avanzato stato di costruzione, ma ancora sugli scali.

Nei mesi successivi al marzo del ’41 altri scontri navali si registrarono in mediterraneo, ma mai si riuscì a “vendicare” l’onta di Matapan in battaglie tra navi di linea. In parte ci riusciranno gli uomini della X Mas che riuscirono ad affondare ad Alessandria una delle corazzate protagoniste dello scontro: la Valiant.



[1] Tutta la Seconda Guerra Mondiale vol 1 – Selezione dal Readers Digest S.p.a – Milano 1975 pag 276

[2] Ibidem pag 278

ROMA, REPUBBLICA:VENITE! (I parte)

Queste le tre parole vergate da Goffredo Mameli (avete presente l’inno “Fratelli d’Italia?) in un telegramma inviato all’indirizzo “Felice C...